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Questa regione è così felice, così deliziosa, così fortunata, che vi si riconosce evidente l’opera prediletta della natura. Perché quest’aere vitale, questa perpetua mitezza del cielo, questa campagna così fertile, questi colli solatii, queste foreste così sicure, questi recessi ombrosi, questi alberi fruttiferi, queste montagne perdute tra le nubi, queste messe sterminate, tanta copia di viti e ulivi. Una terra che porge da ogni parte il suo seno ai commerci e che, quasi per incoraggiare gli umani, stende ella stessa le sue braccia nel mare.

 

Abraham Brueghel G. Ruoppolo, Natura morta con frutta e fiori, Museo di Capodimonte, 1670

 

Avviato con queste parole da Plinio il Vecchio, il mito di una Campania felix si mantenne inalterato nei secoli, ritrovandosi ancora tra i motivi di stupore e di meraviglia dei protagonisti del Grand Tour. Giunto in regione, Goethe poteva così dichiarare che, in questa terra, ogni attesa era ampiamente superata dallo spettacolo che si offriva alla vista:

Se si pensa alla quantità di alimenti che offre questo mare pescoso, dei cui prodotti la gente è obbligata per legge a nutrirsi in alcuni giorni della settimana; a tutti i generi di frutta e d'ortaggi offerti a profusione in ogni tempo dell'anno; al fatto che la contrada circostante Napoli ha meritato il nome di Terra di Lavoro (dove lavoro significa lavoro agricolo) e l'intera sua provincia porta da secoli il titolo onorifico di Campania felix, campagna felice, ben si comprende come là sia facile vivere.

Attratti dalla magnificenza della terza capitale d’Europa e, a partire dal Settecento, anche dallo splendore della musica colta che faceva di Napoli “il centro dell’armonia e la sorgente da cui gl’ingegni

Attratti dalla magnificenza della terza capitale d’Europa e, a partire dal Settecento, anche dallo splendore della musica colta che faceva di Napoli “il centro dell’armonia e la sorgente da cui gl’ingegni, il gusto e la scienza musicale si sono diffusi in tutti i paesi d’Europa” (Charles Burney, Viaggio musicale in Italia), quei viaggiatori, per quanto poco sensibili alle manifestazioni della cultura popolare, non potevano non notare quanto di unico e irripetibile si consumava quotidianamente per le strade di Napoli e per ogni villaggio e contado della regione. Per Goethe era sufficiente “girare per le strade e aprire gli occhi per vedere spettacoli inimitabili” tra i quali un Pulcinella, visto in azione sul molo, “uno dei punti più rumorosi della città”, in un quadro d’insieme che “avrebbe potuto mandare in visibilio contemporanei e posteri”.  Allo stesso modo, il grande letterato non poteva non notare che “la danza che porta il nome di tarantella” fosse “popolarissima a Napoli”, costituendo “una passione invincibile soprattutto per le fanciulle che vi trascorrono le ore migliori”, risultando particolarmente “salutare per l’ipocondria, le punture dei ragni e quelle malattie che in genere si curano con la traspirazione”.

 

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Una connessione - tra salubrità del clima, peculiarità delle produzioni agro-alimentari e originalità delle espressioni musicali -  che era stata già colta, nella prima metà del Settecento, dal poeta e storico dell’Università di Cambridge Thomas Gray per il quale tra le meraviglia del “paese più bello del mondo”, accanto ai campi di grano ben arati, frammezzatí da filari di olmi e da vigneti tutt’intorno pendenti a festoni, in filari da uno a tre” e alla scena “deliziosa e indimenticabile” offerta dai “grandi alberi di fico, gli aranci in fiori e i mirtilli ad ogni siepe”, anche le abitudini quotidiane di un popolo ai suoi occhi “più gioviale ed allegro” di ogni altro popolo: 

lavorano fino a sera, poi prendono la chitarra e il liuto, che suonano bene, e gironzolano per la città, in riva al mare a godersi il fresco. Si vedono i loro bambini che saltano nudi e quelli più grandi ballano con le castagnette mentre gli altri suonano il címbalo.

Fin dal mito della fondazione di Partenope, Napoli in effetti ha rappresentato, nell’immaginario collettivo, la città “musicale” per eccellenza al punto da meritarsi l’appellativo di “città cantante” e da indurre, già nel Settecento, Pierre Ange Goudar a ritenere il “cervello napoletano pieno soprattutto di suoni”. Un nesso, quello tra cibo e musica, sotteso anche alla definizione, da parte del biologo e nutrizionista americano Ancel Keys, del concetto di dieta mediterranea inteso come “un insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che si estendono dal paesaggio alla tavola, nell’ambito dei Paesi del bacino del Mediterraneo, passando per la coltura, la raccolta, la pesca, la conservazione, la trasformazione, la preparazione e, in particolar modo, il consumo del cibo”: molto di più, dunque, che una semplice per quanto originale pratica alimentare, di cui il biologo americano individuava la patria naturale a Pioppi, frazione del comune di Pollica, nel Cilento.

 

Natura morta con fruttiera, Casa di Julia Felix, Pompei

 

Un concetto, con una stratificazione di sensi e significati, recepito pienamente dall’UNESCO nell’iscrivere la dieta mediterranea tra i patrimoni immateriali dell’umanità, quegli stessi patrimoni che, fin dalla Convenzione del 1985, include soprattutto le forme espressive delle culture popolari e i repertori musicali di tradizione orale:

Il termine dieta si riferisce all’etimo greco “stile di vita”, cioè all’insieme delle pratiche, delle rappresentazioni, delle espressioni, delle conoscenze, delle abilità, dei saperi e degli spazi culturali con i quali le popolazioni del Mediterraneo hanno creato e ricreato nel corso dei secoli una sintesi tra l’ambiente culturale, l’organizzazione sociale, l’universo mitico e religioso intorno al mangiare (…) La Dieta Mediterranea è molto più che un semplice alimento. Essa promuove l'interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La Dieta si fonda nel rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca e all'agricoltura nelle comunità del Mediterraneo”

 

NAPOLITEATRODIPULCINELLANORVINS1838

 

A maggior ragione oggi, quando alcuni comportamenti criminali rischiano di offuscarne definitivamente quella immagine consacrata nella sua storia, è necessario ritornare ad esaltare le eccellenze della Campania, autentica “terra dei suoni e dei sapori” per la straordinaria varietà di espressioni che presenta sull’uno e l’altro versante, strettamente accomunati perché nati e sviluppatisi negli stessi contesti sociali e culturali proprio di una plurisecolare civiltà in cui i tradizionali confini tra rurale e urbano, contadino e cittadino sembrano diluirsi dato che a Napoli, “a differenza di altre città, è stata sempre presente una cultura contadina estremamente vitale”.

Più che un viaggio reale, quello che si offre in queste pagine è l’avvio di un possibile viaggio alla riscoperta dei suoni e sapori che contraddistinguono la Campania, con indicazione soltanto di alcune aree, tra le innumerevoli possibili, caratterizzate da tipologie di repertori musicali e da tipicità di produzioni agroalimentari, con una sosta, all’interno di ognuna di essa, in alcuni luoghi emblematici sull’uno e l’altro versante: un viaggio che si spera di riprendere presto per giungere a una mappatura più estesa ed articolata delle eccellenze culturali che si danno nella terra dei suoni e dei sapori.

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